Il lato folle dell'architettura
«Se per strada ci sono bambini che vanno in bicicletta o che giocano a palla, se ci sono persone che passeggiano, la velocità e i tragitti delle auto dovranno essere ripensati privilegiando l'uso degli spazi aperti da parte delle persone».
È una delle cose più sovversive che mi sia capitato di leggere negli ultimi tempi. L'ho trovata in Placemaker. Gli inventori dei luoghi che abiteremo, un libro scritto da Elena Granata, professoressa di urbanistica presso il Politecnico di Milano, e pubblicato da Einaudi. La frase si riferisce a Delft, la città olandese del pittore Vermeer, dove questa cosa sovversiva la fanno davvero.
Pensare che nelle strade si possa dare priorità ai bambini che giocano e non alle auto, secondo me, non è solo sovversivo, è pure folle: sarò un po' influenzato dal mio essere nato e vissuto a Torino, città dove nessuna amministrazione riesce - neppure quelle che ci provano davvero - a limitare la circolazione delle auto, figuriamoci a dare le strade a chi ci vuole giocare a pallone o a bocce.
Ma il libro di Elena Granata è pieno di follie che, a farla semplice, definisco così: tentativi di ripensare gli spazi in cui viviamo con l'obiettivo di far vivere bene le persone.
Oggi non è così. Negli spazi in cui abitiamo, lavoriamo, ci muoviamo s'è costruito senza pensare al benessere delle persone. Le stesse costruzioni di pregio - in cui cioè si è investito molto per tirarle su o per ristrutturarle - rispettano un elevato canone estetico ma spesso non sono in relazione con il territorio e con le persone che vi abitano (Granata fa l'esempio della Fondazione Prada, a Milano).
Per ribaltare questo approccio è necessaria parecchia follia, mi sembra di capire leggendo Placemaker. Occorre dare il giro all'architettura che vede protagonisti gli archistar: a Venezia abbiamo 'il ponte di... '; a Torino 'il grattacielo di... '; a Reggio Emilia 'la stazione di...', a Roma 'la nuvola di...'.
Forse - penso io - più che identificare e valorizzare la tal opera affiancandovi il di seguito dal nome dell'architetto famoso, sarebbe interessante mettere un per, seguito dal motivo per cui quella costruzione è stata realizzata, soddisfacendo quale bisogno di quali persone che quel territorio abitano.
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Elena Granata dice che servono creatori di luogo, Placemaker, che sappiano partire dall'ascolto delle persone che abitano nei territori in cui vogliono intervenire.
E qui mi pare che nel libro di Elena Granata ci sia un'altra follia: quella di esaltare l'incrocio delle conoscenze.
Per carità, tutte e tutti saremmo d'accordo nel dire che avere la mente aperta sia un valore. Ma chi, in pratica, esalterebbe «la capacità di migrare da una disciplina all'altra con libertà, di stare al margine sulla soglia del proprio sapere, della propria identità e professione»?
Insomma, i placemaker di cui racconta Granata non hanno per forza una laurea in architettura. Anzi, raramente hanno una competenza specialistica particolarmente spiccata. Il che, appunto, suona folle, in una clima culturale che spinge alla specializzazione. Ma forse questa cosa ci sembra folle perché, quando pensiamo al contrario di 'competente su un argomento specifico', ci viene in mente non l'incompetente. Ci viene in mente il 'competente in tanti argomenti', cioè colui che parla pubblicamente di tante cose diverse a prescindere dal fatto che ci capisca qualcosa o meno. Il ciarlatano, insomma.
Il placemaker però non è uno che ha - o millanta - tante competenze, è uno che le fa incrociare, le tante competenze. E per riorganizzare gli spazi in cui viviamo, ne servono parecchie di competenze, ed Elena Granata dedica un sacco di pagine a questa esigenza di uscire dalla specializzazione esasperata.
Placemaker è un libro che alterna racconti di esperienze a riflessioni dell'autrice. Che va dal ragionare sulla disposizione dei banchi nelle scuole al modo di lavorare. Che parla di «padri benestanti, colti e intellettuali» che hanno capito come va il mondo e lo spiegano ai figli o più in generale ai giovani, scrivendo libri di vario successo con «il compiaciuto atteggiamento di chi ci è passato (dall'essere figlio e sdraiato) e poi ne è guarito e ora può elargire consigli e suggerimenti». Questo atteggiamento paternalista, spiega Placemaker, si riflette anche sul modo con cui le città sono costruite e organizzate: cioè senza occuparsi più di tanto delle donne, delle famiglie, dei bambini.
Insomma, c'è davvero molto materiale in questo lavoro di Elena Granata, tant'è che ci sono pure io. O meglio, si parla delle famiglie che, come la mia, hanno scelto di abbandonare una grande città per andare a vivere in una città intermedia (da Torino a Biella, nel mio caso). È un altro passaggio importante, questo: la professoressa Granata mette in guardia dal racconto secondo cui tutti vivremo in sterminate metropoli non particolarmente attraenti (come la Città Est di Nathan Never, per fare un riferimento colto). Non è così: le città intermedie stanno già adesso crescendo e ancor più potranno crescere in futuro, aiutandoci nelle sfide che dobbiamo affrontare.
Perché riprogettare gli spazi in cui viviamo è una necessità: la pandemia ce lo sta dimostrando. Ma se la pandemia si toglierà dai piedi, prima o poi, il caos climatico non può far altro che crescere - tanto o tantissimo, ma crescerà - e per questo ci servono città e più in generale luoghi realizzati pensando a far stare bene le persone. E anche se non ci fossero né pandemie né il riscaldamento globale, varrebbe comunque la pena, dare spazio ai placemaker: Elena Granata lo dimostra raccontando, nel finale, un caso che le sta decisamente a cuore - non dico quale: anche con i saggi non bisogna fare spoiler - in cui alcuni uomini hanno deciso di buttare la natura fuori da una città.
Un vero peccato, perché lasciando convivere natura e persone, nelle città si vivrebbe decisamente meglio.